15 dicembre 2014

Vacuum: un’involucro di energia fatto di danza e suoni


Mentre nel salone principale di Palazzo Mora si sta ancora svolgendo la performance di Gianni Emilio Simonetti, nella stanza accanto il duo artistico Andrigo e Aliprandi inizia a prepararsi. Dopo qualche minuto il pubblico è invitato ad entrare.
Aldo Aliprandi inizia il suo canto, accompagnando da lontano i movimenti di Marianna Andrigo. L’uomo osserva dal lato opposto della stanza la compagna, ma presto la sua visuale è oscurata dalla presenza degli spettatori che da subito rimangono incantati dall’azione della performer. Essi si avvicinano alla donna, vogliono osservane da vicino i movimenti, ma allo stesso tempo rimangono ad una certa distanza dalla stessa. Come ipnotizzato il pubblico osserva la scena in un silenzio contemplativo, rispettando l’azione e soprattutto la concentrazione dei due performer.
Il corpo nudo della donna è costretto all’interno di un involucro di plastica, completamente sottovuoto. La luce si riflette su di esso, facendolo somigliare ad una scultura di cristallo. Una statua costituita da pieghe plastiche, luci ed ombre. La performer svolge la sua danza alternando scatti meccanici a movimenti più morbidi ed armoniosi. In questo modo si vengono a creare dei disegni casuali sul muro della stanza, ombre luminose che sono lo specchio degli spostamenti dell’artista.
Siamo di fronte ad un corpo limitato, il quale non sembra cercare una via d’uscita, ma piuttosto una convivenza all’interno del proprio involucro. Le mani della donna cercano di muoversi agli estremi della copertura, prima accartocciando e poi svolgendo le dita in movimenti brevi. Allo stesso modo tutti gli arti del suo corpo seguono delle linee immaginarie nello spazio, facendo nascere una danza plastica, ma non artificiosa.
La coreografia della donna è guidata da una melodia che riecheggia nello spazio. Ciò che ascoltiamo sono suoni modificati: il canto di Aliprandi unito ai movimenti che Andrigo crea sulla pedana su cui si muove. Anche il performer sembra eseguire una danza, le sue mani si muovono assecondando i propri vocalizzi, in connessione con la compagna. Il legame tra i due non è visivo, ma totalmente focalizzato sui movimenti dell’uno e dell’altro e quindi sui suoni che essi producono. Ciò che sentiamo è dunque l’unione delle energie dei due performer, una corporale e l’altra vocale. Fondamentale e centrale è proprio l’energia che i due sprigionano assieme, trasmettendo la stessa al pubblico che ipnotizzato osserva la scena.
Gli spettatori osservano principalmente la performer, incantati dai suoi movimenti ed allo stesso tempo sconcertati da ciò a cui stanno assistendo. Solo quando la stanza inizia a svuotarsi si può ammirare l’azione nella sua totalità. In quel momento il legame tra i due torna ad essere visivo e una diagonale immaginaria sembra legare l’uno all’altro. La connessione tra i due partner si fa così più forte, la relazione in quel momento non è solamente uditiva, ma anche visuale. L’immagine che si viene a creare è quella di due corpi che si rafforzano l’uno con l’altro, sprigionando allo stesso tempo una potenza che si riversa nel pubblico, che lo stesso è pronto ad accogliere.
L’azione è continua e ripetitiva, sembra non avere una fine. La performance infatti non ha una conclusione prestabilita, è una danza infinita, un mantra corporale che sprigiona energia. A porre fine all’azione è l’inizio della performance di Olivier de Sagazan, a qual punto il pubblico è invitato ad uscire. L’immagine della danza artificiale è ancora impressa nelle nostre menti, quando nel salone principale inizia l’ultima performance di questa serata inaugurale.

Venice International Performance Art Week
13 - 20 Dicembre, 2014

13 Dicembre, 2014
Marianna Andrigo e Aldo Aliprandi, Vacuum (2013)

29 ottobre 2014

Il ciclo di Negus, un percorso ideato dagli Ivernomuto

il ciclo di Negus
courtesy: Marsèlleria

23 ottobre - 29 Novembre, 2014

Gli Invernomuto, duo artistico composto da Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi, presentano dal 23 Ottobre in Marsèlleria un percorso fatto di installazioni, video e sculture, le quali si sviluppano sui tre piani dello spazio espositivo.

Il ciclo di Negus si ispira ad una storia della tradizione popolare, tramandata oralmente  a Vernasca, paese d’origine degli Invernomuto. Il racconto narra dell’effige di Haile Selassie I, ultimo Negus d’Etiopia, bruciata nella piazza principale di Vernasca per festeggiare il ritorno di un soldato del paese dalla campagna italiana in Etiopia.
Il percorso ideato dai due artisti sembra essere la giusta visione di un evento avvenuto nel 1936, di cui non esistono immagini, ma solo una tradizione orale.
L’accesso all’esposizione è dal piano interrato. Lo spettatore è accolto all’interno di uno spazio surreale: pareti argentate e riflettenti fanno da cornice ad un primo video, accompagnato da un’installazione sonora che riecheggia nella stanza. A completare l’atmosfera sono una nuvola di vapore che fuoriesce dal pavimento ed un’accecante luce proveniente da lampade per la coltivazione.
Wondo Genet - o “paradiso terrestre” in lingua Amharic - è il nome del primo dei tre ambienti che costituiscono l’intero percorso espositivo. Il titolo si riferisce ad una zona vicino a Shashemene, ed è anche il nome di un famoso resort in Etiopia. L’installazione è costruita sull'idea di Eden, di paradiso terrestre, descritta anche nel video, ironizzando sullo stesso.
Ogni spazio è stato chiamato con il nome di un luogo esistente, per descrivere l’atmosfera che si può trovare nelle aree corrispondenti.
Il percorso continua con Ruatoria, installazione che si sviluppa al piano terra. Ruatoria è una località che si trova in Australia, ed è il punto più a est del mondo, il primo luogo ad essere illuminato dalla luce solare all’inizio di un nuovo giorno. Nella zona vive una comunità Rasta-Maori, in attesa della venuta del Messia Haile Selassie I.
Tre sono le sculture presenti su questo piano, attraverso le quali i luoghi del racconto degli Invernomuto vengono idealmente collegati tra loro.
A fare da scenografia è Wax, Relax, un monumento della cultura popolare che si rifà alla copia della grotta di Lourdes presente nella chiesa di Vernasca. Il lavoro si focalizza sul concetto di copia, di duplice e multiplo, essendo la stessa opera la copia di una copia della grotta reale. La scultura realizzata in cera è destinata a sciogliersi durante i giorni della mostra.
In primo piano troviamo Zion, Landscape, anch’essa la copia di un monumento esistente, ovvero una scala composta da quattordici scalini, i quali simboleggiano gli anni della presenza del regime fascista in Etiopia. I due artisti sventrano la struttura originale affiancando una pianta agli scalini per ricordare l'esotico e ponendo la copia della statua del leone su uno schermo LCD, nel quale viene riprodotto un video realizzato dagli artisti al National Museum di Addis Abbeba che conserva il primo ominide: Lucy. Quest'ultima scultura è chiamata Motherland.
A completare il percorso all'ultimo piano è l'installazione Black Ark, nome della casa discografica fondata in Jamaica dal produttore dub/reggae Lee “Scratch” Perry, e bruciata dallo stesso nel 1984, come atto di purificazione.
Le prime sculture che troviamo salendo sono Negus, una lamiera sagomata raffigurante Haile Selassie I,  e “I-Ration”, una stella a tre punte che ricorda il logo di Mercedes-Benz stella che era l’emblema di Haile Selassie I che divenne il logo della casa automobilistica che in cambio fornì mezzi di trasporto pubblico.
A guidarci verso il fondo della sala è il mantra "Standing on the hill, in Veeeernasca!" interpretato in un video da Perry nella piazza principale di Vernasca, luogo dove negli anni Trenta venne bruciato il fantoccio di Haile Selassie I. Il fuoco è il protagonista di un rituale, ed utilizzato per eliminare le influenze negative. L’elemento è stato scelto dai due artisti per la purificazione di Vernasca ed in modo particolare della sua piazza.
Il viaggio guidato dagli Invernomuto termina qui. Molti sono i souvenir e gli stimoli che restano allo spettatore, un percorso ricco di significati ed immagini. Vari sono i livelli su cui si sviluppa la mostra, in senso fisico all'interno dello spazio espositivo, e dal punto di vista concettuale, facendo nascere spunti per una riflessione più ampia.


Invernomuto

Marsèlleria, Milano
23 Ottobre - 29 Novembre, 2014

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English version


The Negus cycle, an itinerary conceived by Invernomuto

The artistic Italian duo Invernomuto, composed by Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi, presents an itinerary that comprise installations, videos and sculptures developed on the three floors of the exhibition space. The exhibition is starting on the 23rd of October at Marsèlleria, in Milan.
The Negus cycle takes inspiration from a popular tradition of Vernasca, the native village of the artistic duo. The story talks about the burning of Halle Selassie I’s effigy, the last Negus of Ethiopia. That action was realized on the central square of Vernasca for celebrating the return of a soldier from the italian campaign in Ethiopia. 
The Invernomuto’s itinerary seems to be the right view of an event happened in 1936, from which don’t exist photos or images, only an oral tradition.
The entrance to the exhibition is on the basement. The spectator is received in a surreal space: silver and reflecting walls are the frame for a video and an audio installation. A cloud of fog above the floor and a dazzled light coming from many other lights for indoor cultivation complete the atmosphere. 
Wondo Genet - or “earthly paradise” in Amharic - is the name of the first of three spaces, which constitute the whole exhibition itinerary. The title is related of a location near Shashemene, and is also the name of a famous resort n Ethiopia. The installation is built on the idea of Eden and it’s illustrated into the video ironizing on that idea.
Each place is called with the name of a real location to describe the atmosphere that we can find in the corresponding areas.
The itinerary continues with Ruatoria, the installation on the first floor. Ruatoria is a location in Australia, the Easternmost point of the world, the first place which the solar light illuminates the beginning of a new day. In that place live a Rasta-Maori community attending the arrival of Messia Haile Selassie I.
In that floor there are three sculptures which connect the places of the Invernomuto’s story. The scenography is Wax, relax, a monument which takes inspiration from the popular tradition. Indeed the sculpture is a copy of the copy of the Lourdes’ cave located  in the church of Vernasca’s village. The art piece is focused on the concept of copy, duplicate and multiply. The sculpture is made from wax and it’s going to change during the exhibition.
In the foreground we can see Zion, Landscape, another copy of an existing monument: a stair with fourteen steps. These are the symbol of the presence of the fascist regime in Ethiopia. The two artists decomposed the original structure. They put near the stair a plant to recall the exotic, and a copy of the lion above a LCD screen. That sculpture is called Motherland and it reproduces a video of the National Museum of Addis Abeda where is conserved the first ominide: Lucy.
To complete the exhibition itinerary there is the installation at the last floor, titled Black Ark. The name is took from the recording studio founded in Jamaica by the producer dub/reggae Lee “Scratch” Perry, and burnt down by himself in 1984 as an act of purification.
The first sculpture is Negus, a profiled sheet that on one side bears an airbrushed portrait of Haile Selassie I; the other side has a mirror finish. The second sculpture is I Ration, a three-pointed star, made in iron and cut at the center by a flame that lights at regular intervals. Its shape recalls the Mercedes-Benz logo, that once was the emblem of Haile Selassie I. To guide us until the end of the room is the mantra "Standing on the hill, in Veeeernasca!” song of a Perry’s video presented in the central square of Vernasca, for eliminating the negative influences.

The trip conceived by Invernomuto ends here. There are a lot of souvenirs and props for the visitors that will experience this itinerary rich of images and meanings. More than one layer can be developed during the exhibition, firstly the physical sense and secondly the conceptual mood which flourish different sparks useful for bigger reflections.

14 agosto 2014

Cibo, deperibilità e morte tra occidente ed oriente

L'ultima mostra stagionale presentata da Fluxia a Milano si è conclusa a fine luglio. L'esposizione era incentrata sul dialogo tra Luca Francesconi e Taocheng Wang.
Francesconi è un'artista mantovano rappresentato da molti anni da Fluxia, mentre Wang è un'artista cinese che vive e lavora ad Amsterdam.
Fluxia ha deciso di presentare nei propri spazi un progetto differente dal solito, con il quale si propone di dare il via ad una serie di dialoghi di questo genere. L'intenzione è quella di lasciare spazio agli artisti che essa rappresenta, i quali avranno modo di lavorare assieme ad un collega da loro stimato.
Luca Francesconi è stato colui che ha dato inizio a questo particolare progetto. L'artista, interessato al lavoro di Taocheng Wang, si è messo in contatto con la stessa dando il via ad un dialogo inizialmente virtuale, sviluppando infine, negli spazi di Fluxia, un conversazione divenuta esposizione.

Visione dell'istallazione
Courtesy Fluxia e Andrea Rossetti


La poetica di Francesconi da tempo vuole mettere in luce un legame antropologico tra l'uomo e la natura, il quale si sviluppa e prende forma nell'agricoltura. L'artista ritiene che ancora oggi la pratica agricola sia fondamentale per l'uomo, utilizzata oggigiorno non solo per un bisogno di sopravvivenza, ma concentrata soprattutto sull'importanza energetica e salutare che la stessa può donare all'essere umano.
Anche Taocheng Wang pone l'attenzione sugli alimenti, intesi come elementi con cui l'uomo ha da sempre un forte legame, appunto perchè indispensabile per la nostra vita.
Sebbene i due artisti abbiano origini culturali differenti, le opere presenti in galleria confermano la loro vicinanza formale. I loro lavori entrano spontaneamente in conversazione, creando un legame tra cultura occidentale ed orientale basato su cibo, deperibilità e  morte.
Entrando negli spazi della galleria a dare il benvenuto è un tappeto di alghe ormai secche dell'artista cinese. Lo stesso si lega ad un video precedentemente realizzato da Taocheng Wang, nel quale alcune alghe vengono tenute costantemente bagnate, affinché esse rimangano "vive". Nell'installazione si viene quindi a creare una contrapposizione tra la vita e la morte, la quale è necessariamente basata su un fattore temporale. Le alghe del video sono vive perché in acqua, come lo sono originariamente, ma allo stesso tempo le alghe secche sul pavimento ci ricordano che l'intervento umano le ha estrapolate dalla loro natura, lasciandole deperire.
In modo simile gli uomini in acciaio di Luca Francesconi hanno teste di frutta e verdura che col tempo andranno a deperire, esse però verranno sostituite prima che il loro disfacimento sia visibile. In questo caso l'intervento umano è necessario per mantenere in vita le opere. Un muro di plastica fa da scenografia agli attori metallici, schermando il muro reale della galleria. L'artista si è divertito a spruzzare della polenta sulla finta parete, utilizzando la tecnica del dripping. L'alimento si andrà col tempo a seccare, finendo col cadere sul pavimento. In questo modo si viene a creare una connessione con le alghe secche, trovandosi anch'esse distese a terra. 
L'allestimento stesso può essere inteso come un'ulteriore ciclo della vita, all'interno del quale vari ecosistemi nascono e muoiono. Le alghe morte sul pavimento riprendono vita nel video, dalla terra all'acqua esse ritornano al loro stato naturale potendo rinascere. Come le alghe anche le teste di frutta e verdura sono vive e fresche, e grazie all'intervento dell'uomo esse continueranno a rimanere in vita. Lo scenario retrostante però ci ricorda che tutto infine deve morire: la polenta appena spruzzata e calda col tempo si è seccata ed è caduta sul pavimento, tornando alla terra. E così il ciclo si è concluso, pronto nuovamente a ricominciare.


Luca Francesconi / Taocheng Wang

Fluxia, Milano
12 Giugno - 23 Luglio, 2014

14 maggio 2014

Le piastrelle di TILE

Tile, ovvero piastrella, è un nome quanto mai perfetto per il nuovo spazio di progetto aperto ieri, martedì 13 maggio, a Milano. A caratterizzare e rendere unico il piccolo spazio espositivo sono appunto delle bianche e lucide piastrelle, le quali rispecchiano ciò che le circonda. Il progetto nasce dall’idea di tre giovani curatrici, Roberta Mansueto, Caterina Molteni e Denise Solenghi, le quali hanno deciso di inaugurare questa nuova realtà con un lavoro site-specific di Alessandro Quaranta.
I non illusi errano nasce proprio dall’osservazione delle caratteristiche piastrelle, queste hanno dato il via ad una video performance che ricerca un ponte tra l’esterno e l’interno dello spazio espositivo. Lo spettatore assiste a ciò che accade fuori, ma ciò che vede sono delle immagini confuse, quello che osserva è infatti una riflessione dello spazio esterno. L’opera è in costante mutamento e non lascia tracce: ciò che è accaduto rimane nell’oblio del passato, affinché ognuno di noi possa osservare una nuova ed unica visione.
TILE project space si propone di promuovere e produrre il lavoro di giovani artisti italiani. Le curatrici spiegano appunto di voler presentare delle opere che nascano dal contatto diretto con lo spazio espositivo, data la sua particolarità. I lavori che verranno presentati saranno quindi pensati appositamente per il luogo cercando di creare un dialogo con lo stesso.
Le esposizioni sono accompagnate parallelamente da una fanzine. In questa vengono riportate suggestioni principalmente visive e letterarie, le quali derivano dalla ricerca dell’artista, ma anche da quella delle tre curatrici.

Certamente un buon inizio per questo interessante progetto, e ora aspettiamo la prossima mostra per capire se davvero continuerà a funzionare.



Alessandro Quaranta. I non illusi errano

TILE project space - Milano
14 - 27 Maggio, 2014

18 febbraio 2014

La memoria della materia

in primo piano: Nicola Martini
Untitled, 2013
dietro: Olga Balema
Untitled, 2014
(foto di Andrea Rossetti)

Una materia che ha memoria è quella presentata presso la galleria Fluxia di Milano fino all'8 Marzo 2014. All'interno dello spazio espositivo le opere creano un percorso ben strutturato sottolineando le trasformazioni dei materiali quali cera, metallo, resina, tela. Nelle varie opere viene messo in luce il cambiamento dei loro componenti, ma soprattutto viene evidenziato il ricordo di ciò che era prima. Ossidazione del metallo, evaporazione dell'acqua, malleabilità della cera, strati di pittura, stampi di snikers, disgregazione del cemento: sono solo alcuni degli eventi accaduti o ancora in corso. Di cera è la colonna a base rettangolare creata da Nicola Martini. Una cavità ci porta all'interno del materiale, rivelando le caratteristiche interne dello stesso. L'artista italiano vive e lavora a Parigi e nelle sue opere spesso unisce lastre di materiali differenti o delle semplici sculture a base quadrangolare. In ogni caso la materia pura è una delle caratteristiche principali dei suoi lavori. Porfido, cemento, cera, bitume e pietra sono i più utilizzati dall'artista. 
Seguono due fontane di Olga Balema. L'artista olandese utilizza materiali di scarto come lastre di metallo e vestiti usati per creare delle inusuali fontane. Interessante come lo scorrere continuo dell'acqua arrugginisca la lastra di metallo su cui essa scivola. Il liquido confluisce poi nuovamente all'interno di una canna che lo rimette in circolo. Questo ciclo continuo rumoreggia nell'aria, lo scorrere dell'acqua si diffonde infatti nello spazio dando vita ad una lieve melodia naturale.
Etienne Chambaud,
Nameless 2013
(Foto di Andrea Rossetti)
Per finire i lavori di Etienne Chambaud sottolineano nuovamente le potenzialità dei materiali. L'artista parigino ha preparato tre tele con una pittura al rame, sulla quale ha poi distribuito le urine di tre animali differenti. In questo modo si vengono a creare delle chimere, dunque dei nuovi esseri rimasti aggrappati alla tela. Il liquido ossida la pittura creando delle figure astratte ed automatiche dal colore verdastro. Interessante è anche l'idea di presentare tre tele della stessa misura, come a formare un'ulteriore unione di animali e quindi un'altra chimera. L'artista in ogni caso sta ancora lavorando a lavori simili, riproponendo nuove unioni e diverse misure del supporto.
Questi sono solo alcuni dei giovani artisti presenti in galleria. I loro lavori sono accomunati dalla purezza con la quale viene indagata la materia, lasciandone trasparire le imperfezioni e cercando di interagire direttamente con la stessa.





artisti in mostra: 
Nicola Martini, Olga Balema, Anne De Vires, Maria Taniguchi, Etienne Chambaud



Material Memories


Fluxia Gallery - Milano
23 Gennaio - 8 Marzo, 2014

13 febbraio 2014

Dorfles e i cavallucci marini

Non so, sarò forse io a non capire, ma se Gillo Dorfles è conosciuto come grande critico d'arte e filosofo perché esporre dei suoi lavori come fosse un grande artista? Innanzitutto non sapevo che la pittura fosse il suo grande hobby e sì che lo fa da parecchi anni, sin dagli anni trenta. Ma quello che io mi dico è che a tanti piace dipingere, ma se non tutti diventano artisti ci sarà un motivo. Dunque perché esporre dei dipinti quanto meno discutibili per quanto riguarda la loro valenza artistica? La spiegazione che mi sono data è che ciò accade perché si parla di Dorfles, figura imponente nel mondo dell'arte e sicuramente che ha fatto la storia, ma che di certo la storia non la fatta con i propri dipinti. Se il pittore fosse stato mio padre di certo i suoi dipinti non sarebbero stati esposti presso la Fondazione Marconi di Milano.

Gillo Dorfles
Simbiosi di esseri, 1996
Ecco uno di quei momenti in cui mi ritrovo davanti a delle opere e non le capisco, non riesco a vedere oltre. Sarà gusto personale ma io questo dipinto non lo concepisco, ci vedo solamente un cavalluccio marino assieme ad una chiocciola e ad un alieno. Sarà che mi blocco all'apparenza, ma io quest'opera proprio non riesco a contestualizzarla e quindi a capirla.
Gillo Dorfles
Senza titolo, 1947-2013
A mio parere l'unica opera interessante è questa scultura in marmo. Essa è posizionata sopra un piedistallo e si sviluppa delicatamente seguendo delle forme antropomorfe. Non è esattamente innovativa, ma in questa vedo purezza, passione, visi, spalle, schiene, corpi aggrovigliati. E non so per quale motivo Dorfles l'abbia creata ma quest'opera a me lascia qualcosa, al contrario dei dipinti.
Ed infine al secondo piano ci sono dei piatti decorati che mi ricordano quelli creati da Picasso. Esteticamente mi piacciono, ma dire che siano interessanti dal punto di vista artistico anche questa volta è difficile da dire. Diciamo che sono simpatici.


Gillo Dorfles. Ieri e oggi


Fondazione Marconi - Milano
15 Gennaio - 22 Febbraio, 2014

5 febbraio 2014

Fare arte: tra il dire e il fare c'è di mezzo un'idea

Silvia Camporesi
Qualche volta di notte, 2012
Questo fine settimana l'ho passato a Bologna presso lo Spazio Labò, una realtà davvero interessante per quanto riguarda il campo della fotografia. All'interno di questo spazio vengono realizzati vari corsi di avvicinamento o approfondimento del mezzo fotografico, oltre a numerosi workshop che mirano a temi specifici.
Da appassionata di fotografia ho trovato per caso un workshop presso questo spazio che mi sembrava davvero interessante. Il titolo era "Fare arte" e a tenerlo era Silvia Camporesi, artista che fino a qualche tempo fa non conoscevo. Inizialmente sono stata colpita dal nome, mi sembrava interessante un workshop di fotografia che intendesse l'atto fotografico come un'azione artistica, un po' come la intendo io. Ma l'artista che lo teneva non la conoscevo, volevo quindi capire se potesse essere o meno interessante, perciò ho controllato il suo sito internet. I suoi lavori sono stati una rivelazione: poche volte ho trovato delle foto così vicine a come intendo io la fotografia, ovvero un mezzo per realizzare arte, per costruire dei lavori che possano essere chiamati opere. A quel punto non potevo che iscrivermi al workshop, volevo imparare da lei, e capire come lei era riuscita a diventare un'artista.
Ed ecco quindi che questo sabato e questa domenica le ho passate chiusa in una stanza con altri sette appassionati di fotografia cercando di pensare ad un'idea e quindi capendo come "fare arte", realizzando poi quell'idea. Apprendere un metodo, così semplice ma spesso indispensabile per focalizzare un punto di partenza e che possa essere sviluppato per arrivare ad un punto d'arrivo. Ricercare testi, immagini, parole chiave, e dare forma ad un proprio progetto utile alla realizzazione di un prodotto finale di cui poter essere fieri e sicuri.
E trovare una persona, Silvia, così normale seppur nella sua stranezza. Una donna laureata in filosofia, ma che ora fa la fotografa. Pranzare con un'artista che ti racconta come ha deciso di diventare fotografa e quante volte gli è stato detto che i suoi lavori potevano essere migliori, ma lei non ha mollato, si era costruita un programma ben preciso, l'ha seguito e ce l'ha fatta. E ora lei realizza le proprie idee, molte di queste trovate nelle parole crociate, e viaggia e scopre posti nuovi e li fotografa e li rende vivi. Si sa che se si vuole qualcosa davvero, con la perseveranza tutto si ottiene, e lei ne è la conferma.
Una bella scoperta, una stupenda esperienza.


Silvia Camporesi
La Terza Venezia, 2011



"Fare arte": creatività e progettualità nella fotografia contemporaea
con Silvia Camporesi
Spazio Labò - Bologna
1 - 2 Febbraio, 2014


link utili: www.spaziolabo.it
              www.silviacamporesi.it

30 gennaio 2014

Elvis ed i suoi giovani amici


Venezia è sempre pronta a rivelare nuove sorprese. Anche questa volta la Fondazione Bevilacqua La Masa lascia spazio a quindici giovani artisti affiancati da tre altrettanto giovani curatrici.
Elvis ha lasciato l'edificio si propone di unire in un'unica mostra i lavori realizzati durante il laboratorio di Arti Visive Iuav tenuto da Alberto Garutti con l'assistenza di Caterina Rossato. Sotto l'ala protettiva ma anche giudicatrice dell'artista italiano, i ragazzi, nonostante i primi dubbi e le iniziali timidezze, hanno prodotto opere di alto valore concettuale ed estetico.
Alle 19.00 la performance di Pietro Bonfanti dà l'avvio ufficiale alla mostra. Silenzio in sala ed ecco che qualcosa accade, ma anche nulla: una sfera d'argilla viene posizionata sopra un'asse di legno, l'artista toglie il panno umido che l'avvolgeva, questo viene immerso in acqua e strizzato, poi riposto nuovamente sopra l'argilla ed infine i vari strumenti vengono appoggiati su di un lato della stanza. La performance è terminata. Niente di più e niente di meno di ciò che abbiamo visto. La palla di creta rimarrà esposta come un monumento senza forma, ed in continuazione verrà bagnata affinché resti viva. Il lavoro è quello che è e ci basta, la scultura è tutto e niente, possiede il potenziale per diventare qualcosa d'altro, ma la sua grande forza sta nel voler rimanere ciò che è.
Pura e semplice è anche l'installazione di Gaia Ceresi. Con l'intenzione di dare forma ad una tipica tecnica di rilegatura, l'artista vuole soffermarsi sul valore dell'atto artigianale rispetto a quello artistico. Posizionando sopra delle vuote risme di fogli delle colonne di pietra, essa svuota di significato l'antico lavoro artigianale innalzandolo ad un senso differente. Si vengono così a creare delle forme nuove, le quali ora non sono altro che lineari sculture.
Continuando nella stanza seguente il video di Guido Modanese è la semplice testimonianza di un'anziana signora. La donna racconta la propria vita all'interno dell'involucro protettivo della propria casa e ciò che lo spettatore può osservare è solamente il suo rifugio. Le parole della signora accompagnano e guidano la nostra visione, che a poco a poco si insinua sempre più nella sua vita che ora è solamente racchiusa tra quattro mura. Quadri, fotografie, vestiti, mobili, centrini, crocifissi, nulla può cambiare affinché l'anziana donna continui a sentirsi al sicuro nella sua abitazione, il suo mondo.
Descrivono invece la fine di un percorso i monocromi disturbati di Valentina Furian. Il lavoro presenta l'usura e la fine del processo di un macchinario industriale quale una stampante. Le immagini raccontano la conclusione di una vita, ma anche il passato della stessa, celando alla nostra vista l'intero processo. Ciò che è esposto è la fine di un procedimento che continua fino al termine delle sue possibilità. L'opera pone l'attenzione sul sistema di colorazione RGB delle stampanti, e quindi ragiona sull'esaurimento delle stesse.
Nello spazio di Palazzetto Tito i lavori delineano una sorta di percorso, il quale sembra raccontare l'avventura del laboratorio. Partendo dalla potenzialità di una sfera d'argilla, la quale cela dentro di sé miriadi di possibilità, si dà inizio ad un percorso che termina con il video di Lorenzo Comisso a confronto con l'artista e insegnante Alberto Garutti. Il lavoro sembra concludere al meglio l'esperienza del laboratorio affrontata dai ragazzi.


Pietro Bonfanti
Monumento a quell'anarchico, 2013

(foto di Fabio Valerio Tibollo)


Artisti in mostra: 

Susanna Alberti, Edoardo Aruta, Marzia Avallone, Pietro Bonfanti, Gaia Ceresi, Lorenzo Commisso, Valentina Furian, Yulia Knish, Leonardo Mastromauro, Graziano Meneghin, Guido Modanese, Francesco Nordio, Serena Oliva, Fabio Valerio Tibollo, Laura Tinti.

Curatori:

Rachele Burgato, Valentina Lacinio, Giulia Morucchio


Elvis ha lasciato l'edificio

Fondazione Bevilacqua la Masa, Palazzetto Tito - Venezia
29 Gennaio - 9 Febbraio 2014
10.30 - 17.30
chiuso Lunedì e Martedì

link utili: elvishalasciatoledificio.tumblr.com





23 gennaio 2014

Gohar Dashti: stare dentro a ciò che è fuori

A Milano la galleria Officine dell'Immagine presenta per la prima volta una retrospettiva dell'artista iraniana Gohar Dashti dal titolo Inside Out e curata da Silvia Cirelli. Nata e ancora oggi residente a Theran, Gohar esemplifica con le proprie fotografie il disagio di una generazione che ha dovuto affrontare tragedie collettive diventate personali. L'artista infatti nasce durante la Rivoluzione Islamica che colpicse l'Iran nel 1979, e trascorre la sua infanzia durante la sanguinosa Guerra Iran-Iraq (1980-1988). I suoi lavori sono metafore paradossali della vita quotidiana della popolazione iraniana. Le ambientazioni segnate dalla guerra fanno da sfondo a personaggi allegorici, i quali compiono le più normali azioni senza curarsi di ciò che sta loro attorno.
Presso la galleria sono esposti alcuni lavori delle diverse serie realizzate dall'artista. Essi sono la rappresentazione del' "inside out": uno stare dentro il fuori, un essere presenti in una realtà che ormai è propria del popolo iraniano, sebbene ne sia estranea, una realtà militare e guerrigliera. 
Today's Life War #4, 2008
Del 2008 è Today's Life War nelle cui immagini una coppia svolge le azioni più comuni come fare colazione, guardare la televisione, dormire e leggere il giornale, continuamente circondati da elementi di disturbo quali carri armati, soldati, bunker ed elmetti abbandonati. Interessante è il puro contrasto che si crea tra le azioni quotidiane che ognuno di noi è abituato a compiere ed una realtà così distante dalla nostra. I protagonisti delle fotografie sembrano vivere come se ormai fossero abituati a quella che non è più l'eccezione ma la regola: la costante presenza della guerra.
Slow Decay #2, 2010
L'ambientazione si fa più intima in Slow Decay del 2010. Le fotografie sembrano penetrare uno spazio familiare, come delle finestre esse portano alla luce i disagi dei componenti di una famiglia iraniana: dalla bambina che si addormenta di fronte ad un telefono insanguinato al padre pensieroso sopra un letto in un ambiente spoglio.
Spazi più ampi sono quelli della serie Volcano del 2012. Le pose plastiche dei protagonisti sembrano essere dei fermi immagini di una realtà surreale: tutti ridono apparentemente senza un motivo particolare. Le ambientazioni sembrano essere dei teatri dell'immaginario collettivo in bilico tra realtà e finzione.
L'ultima serie del 2013 è Iran, Untitled. Le fotografie mettono in evidenza la realtà iraniana negli spazi desertici e desolati della periferia di Mashhad. Recinti immaginari fissano gruppi di persone in una piccola porzione di spazio rispetto all'immensità che li circonda. I personaggi delle immagini sembrano essere stati estrapolati dal loro contesto originario e trasportati improvvisamente in un paesaggio spoglio e minimalista. Ognuno di loro guarda in una diversa direzione, cosa attiri la loro attenzione non ci è permesso di vederlo, che cerchino forse delle risposte per il loro futuro?



Iran, Untitled #7, 2013



Gohar Dashti. Inside out

24 Ottobre, 2013 - 24 Gennaio, 2014

9 gennaio 2014

Questi illustri illustratori



Nello splendido salone della Basilica Palladiana sono presentati, fino al 12 gennaio, i lavori di undici illustratori. I giovani under 40 sono tutti italiani e non sono dovuti fuggire all'estero per lavorare, ma nonostante ciò utilizzano internet per pubblicare i loro lavori principalmente oltreoceano. Sebbene il curatore Ale Giorgini sia anche uno dei talentuosi illustratori,  l'organizzazione della mostra risulta equilibrata e ben definiti sono gli spazi per ogni artista.
I lavori esposti sono eterogenei, i vari illustratori infatti utilizzano ciascuno una tecnica ed uno stile originali ed unici. Sono una sorta di teatrini in carta i lavori del duo Bomboland, che a me tanto ricordano i libri pop-up. Linee sinuose e matissiane si trovano invece nelle illustrazioni di Olimpia Zagnoli, la quale sintetizza le forme attraverso sagome colorate. Colorati e particolari sono anche i collage in feltro realizzati da Jacopo Rosati che ha fatto di questo materiale il suo marchio di fabbrica. Serigrafie sono invece quelle di Umberto Mischi e Ale Giorgini, le prime contraddistinte da una linea morbida e le seconde caratterizzate da gruppi di personaggi misteriosi e spesso conosciuti come quelli di Blade Runner e Star Wars. Dallo stile giapponese sono caratterizzate le tavole di Rubens Cantuni, le quali lasciano trasparire anche un interesse per l'ambiente underground che a me sembra già visto. Ammiccanti sono le proposte di Mauro Gatti, sorridono i suoi personaggi affiancati alle opere digitali di Francesco Poroli che poco mi convincono per la loro fredda compostezza. Sarà che preferisco i lavori di Emiliano PonziAlessandro Gottardo e Riccardo Guasco, i quali mi ricordano le illustrazioni più tradizionali e quindi nostalgiche di carta, matite e acquerelli.
Una mostra davvero ben pensata: dall'ordinato allestimento ai numerosi interventi degli stessi autori, dalla fitta comunicazione all'umiltà degli organizzatori nonostante il grande successo. Come non desiderare che altre mostre simili siano realizzate?


Illustrazione di Ale Giorgini


Questo è il trailer della mostra

Basilica Palladiana - Vicenza
14 Dicembre, 2013 - 12 Gennaio, 2014
10.00 - 18.00
chiuso lunedì

4 gennaio 2014

Gianni Berengo Gardin: raccontare per immagini

Venezia, 1960


Il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri a Verona presenta in questo periodo una mostra dedicata a Gianni Berengo Gardin e curata da Denis Curti. L'esposizione, già presentata a Venezia e a Milano, mette in mostra circa duecento fotografie suddivise in dieci sezioni, le quali trasmettono ritmo e carattere al lavoro dell'autore, rendendone la lettura maggiormente piacevole e fluida. 

Il fotografo inizia a catturare la quotidianità negli anni Cinquanta a Venezia, e importante è la documentazione che egli fa delle proteste sessantottine nella città lagunare. Presto si sposta in Francia per studiare fotografia, dove apprende da  Willy Ronis la poetica del reportage e della fotografia sociale.
Venezia però rimane sempre nel cuore del fotografo dove spesso ritorna scattando alcune tra le sue più famose fotografie: i due amanti che si baciano sotto i portici di Piazza S. Marco (sebbene a quel tempo fosse proibito baciarsi in pubblico) o ancora Piazza S. Marco deserta dove una sola bambina corre in mezzo alla neve circondata da piccioni in volo. Negli anni Sessanta pubblicherà Venise de Saison le cui fotografie presentano una Venezia differente da quella turistica, ovvero quella dei veneziani.
Istituto psichiatrico - Parma, 1968
Un altro lavoro davvero interessante è Morire di classe, realizzato assieme alla fotografa e scrittrice Carla Cerati verso la fine degli anni Sessanta. I due svolgono una ricerca all'interno di alcuni manicomi dando un contributo fondamentale per l'approvazione, nel 1978, della legge 180/78 che avrebbe fatto chiudere i manicomi.
La ricerca di Gianni Berengo Gardin continua nelle comunità Rom del nord Italia. Senza pregiudizi e morale, la serie fotografica testimonia la vita delle particolari comunità, dalla madre che lava il figlio in una tinozza alle prove di alcuni musicisti.
Il fotografo è rimasto sempre fedele alla sua macchina fotografica analogica e al bianco e nero, il carattere delle sue fotografie si ritrova anche in questo: forti sono i contrasti e le figure mai del tutto definite. Gianni Berengo Gardin insiste nel definirsi non un artista ma un fotografo, sente piuttosto che il suo lavoro è vicino a quello di uno scrittore, solamente che egli ha scelto di utilizzare le immagini e non le parole per raccontare le storie della vita quotidiana.
Campo nomadi, 1993


Consiglio di prendere l'audioguida per ascoltare alcune spiegazioni del curatore Denis Curti e qualche curiosità direttamente dall'autore. Inoltre da vedere è la video intervista a Gianni Berengo Gardin dove molti sono gli accenni autobiografici ma anche tecnici.






Normandia, 1933



Gianni Berengo Gardin. Storie di un fotografo 

Centro Internazionale Scavi Scaligeri - Verona
26 ottobre, 2013 - 26 gennaio, 2014
10.00 - 19.00
chiuso lunedì

3 gennaio 2014

Schiacciante delusione per lo Schiaccianoci

Per aprire in bellezza il nuovo anno ho deciso di andare a teatro per assistere al balletto dello Schiaccianoci. La coreografia di Lev Ivanov è stata eseguita dal Royal Ballet of Moscow sulle musiche di Tchaikosky.
La favola dello "Schiaccianoci e il Re dei topi" narra la vicenda di Clara che alla Vigilia di Natale riceve in regalo dallo zio uno schiaccianoci a forma di soldatino. La bambina si addormenta alla festa e sogna di una strana realtà in cui tutti i giocattoli prendono vita ma dove alcuni topi cercano di rubarle lo schiaccianoci. In quel momento il soldatino prende vita ed inizia a combattere finendo con l'uccidere il Re dei Topi, trasformandosi infine in un bellissimo Principe.
In questa prima parte le danze sono confuse e i costumi troppo sfarzosi tendendo al kitch. Gli unici personaggi che si salvano sono i topi soldato che ben si inseriscono nelle danze con le loro grandi teste da topo.
Più ordinata è la seconda parte in cui Clara segue lo Schiaccianoci nel Regno dei Dolci dove la Fata Confetto ascolta le avventure del Principe. Iniziano infine una serie di danze le quali culminano nel "Valzer dei Fiori". Il Principe Schiaccianoci chiede a Clara di restare ma lei sa che quello non è il suo posto risvegliandosi così dal proprio sogno.
Le danze in questa parte sono eseguite in gran parte da coppie provenienti da diversi paesi nel mondo. Purtroppo la coppia cinese risulta stereotipata per i costumi ma soprattutto per la coreografia, se l'intenzione era di renderli simpatici il risultato è che erano ridicoli. La migliore interpretazione è sicuramente quella della coppia araba, appassionata la loro danza e perfetta l'unione dei corpi dei due ballerini.

Non sono stata quindi soddisfatta del balletto, tante erano le aspettative purtroppo del tutto schiacciate dalla delusione. 



1 gennaio 2014, Teatro di Vicenza


Lo Schiaccianoci
balletto in due atti ispirato ad un racconto di E.T.A. Hoffamn
coreografia di Lev Ivanov, Marius Pepita
musica di Pyotr Ilyich Tchaikovsky
adattamento di Anatoly Emelyanov
libretto di Marius Pepita
adattamento di Anatoly Emelyanov
scene e costumi di Valentin Fedorov